Abbiamo visto, negli articoli precedenti, come «l’economia delle conoscenze» della UE fosse la risposta, negli anni Novanta, all’economia americana, più flessibile e competitiva. Si trattava di superarla. Ma di fatto, di diventare tutti, europei e americani, sempre più neoliberisti. Così l’impatto sui sistemi di formazione e istruzione dalle scuole medie all’università è stato sempre più forte. Per il pedagogista austriaco Ludwig A. Pongratz, «la politica della formazione è diventata da allora un elemento stabile della politica di occupazione e dell’economia. Essa serve in prima linea alla crescita economica, alla competitività e alla mobilità». Detta in parole povere: ad asservire l’istruzione e la scuola alle ragioni del Capitale.
Ciò che sta avvenendo, con somiglianze e differenze in Europa, e in particolare in Italia, è di fatto una inquietante americanizzazione economicistica dell’istruzione. Ancora una volta il filosofo e pedagogista canadese-americano Henry Giroux, che ha studiato attentamente la deriva neoliberista della scuola americana, ci sarà buon Virgilio. Questo processo devastante negli Stati Uniti avviene almeno a partire dagli anni Ottanta. Così scrive Giroux: «Le scuole pubbliche vengono sempre più considerate come aziende, apprezzate in base alla “soddisfazione del cliente” e alla loro efficienza, e, allo stesso tempo, giudicate generalmente attraverso gli stretti obiettivi delle misure di valore empirico»*. Se non sono aziende e investimenti a profitto, le scuole pubbliche vengono ridotte a centri di contenimento – holding progettate per punire i giovani emarginati per razza o per ceto sociale. I giovani poveri – continua Giroux -, bianchi, mulatti o neri che siano, vengono cacciati dalla scuola e riversati in un canale diretto “scuola-prigione” (school-to-prison pipeline). Le scuole appaiono ormai come centri di studio per persone privilegiate e zone di abbandono per i poveri. Continua poi la politica di umiliazione degli insegnanti, come nuovi “re del welfare”, mentre in accademia è più importante essere “un imprenditore della nuova economia delle conoscenze”, che un intellettuale e uno studioso critico. Nel frattempo i fondi all’istruzione pubblica vengono continuamente tagliati e ridotti, e la scuola trasformata in una “fabbrica di credenziali” esemplata sui valori, le relazioni sociali e le pratiche governative delle grandi imprese. Una miserevole metafisica domina sempre più l’istruzione pubblica superiore ed universitaria: ciò che non è quantificabile, non ha valore. E così, testualmente, ha sostenuto sul Nightly News della NBC anche il magnate americano Bill Gates, il quale da anni, guarda caso, con altri magnati ultramiliardari, versa milioni e milioni di dollari per una campagna di discredito dell’istruzione pubblica, degli insegnanti, dei loro sindacati e a favore della business culture. L’ossessione della misurabilità e della quantificazione, sempre più presente nelle nostre scuole, risponde propri a questi requisiti. La pedagogia d’impresa non ama il pensiero critico, i soggetti autonomi, né vuole potenziare la creatività o la responsabilità civica e politica tra gli studenti. Il “paesaggio” descritto da Giroux sembra da una parte distopico, quasi venisse da Orwell o Huxley, dall’altra ha già fortissime rispondenze nella nostra realtà scolastica. Ma è un futuro vicinissimo, prossimo, presente.
Americanizzare la scuola? No grazie!
Ps. Un’interessante iniziativa, che in pochi giorni ha raccolto più di 11000 firme, tra cui quelle di molti autorevoli intellettuali italiani, è l’Appello per la Scuola Pubblica. Si chiede in esso, tra l’altro, una moratoria sulla legge 107 (Buona Scuola). Ecco il link da cui si può leggere firmare l’appello e vederne i firmatari: https://sites.google.com/site/appelloperlascuolapubblica/
* H. Giroux, Educazione e crisi dei valori pubblici, La Scuola, Brescia 2012, pp. 13-14.
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