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Americanizziamo la scuola? No grazie!

pubblicato il 13 Febbraio 2018

Abbiamo visto, negli articoli precedenti, come «l’economia delle conoscenze» della UE fosse la risposta, negli anni Novanta, all’economia americana, più flessibile e competitiva. Si trattava di superarla. Ma di fatto, di diventare tutti, europei e americani, sempre più neoliberisti. Così l’impatto sui sistemi di formazione e istruzione dalle scuole medie all’università è stato sempre più forte. Per il pedagogista austriaco Ludwig A. Pongratz, «la politica della formazione è diventata da allora un elemento stabile della politica di occupazione e dell’economia. Essa serve in prima linea alla crescita economica, alla competitività e alla mobilità». Detta in parole povere: ad asservire l’istruzione e la scuola alle ragioni del Capitale.

Ciò che sta avvenendo, con somiglianze e differenze in Europa, e in particolare in Italia, è di fatto una inquietante americanizzazione economicistica dell’istruzione. Ancora una volta il filosofo e pedagogista canadese-americano Henry Giroux, che ha studiato attentamente la deriva neoliberista della scuola americana, ci sarà buon Virgilio. Questo processo devastante negli Stati Uniti avviene almeno a partire dagli anni Ottanta. Così scrive Giroux: «Le scuole pubbliche vengono sempre più considerate come aziende, apprezzate in base alla “soddisfazione del cliente” e alla loro efficienza, e, allo stesso tempo, giudicate generalmente attraverso gli stretti obiettivi delle misure di valore empirico»*. Se non sono aziende e investimenti a profitto, le scuole pubbliche vengono ridotte a centri di contenimento – holding progettate per punire i giovani emarginati per razza o per ceto sociale. I giovani poveri – continua Giroux -, bianchi, mulatti o neri che siano, vengono cacciati dalla scuola e riversati in un canale diretto “scuola-prigione” (school-to-prison pipeline). Le scuole appaiono ormai come centri di studio per persone privilegiate e zone di abbandono per i poveri. Continua poi la politica di umiliazione degli insegnanti, come nuovi “re del welfare”, mentre in accademia è più importante essere “un imprenditore della nuova economia delle conoscenze”, che un intellettuale e uno studioso critico. Nel frattempo i fondi all’istruzione pubblica vengono continuamente tagliati e ridotti, e la scuola trasformata in una “fabbrica di credenziali” esemplata sui valori, le relazioni sociali e le pratiche governative delle grandi imprese. Una miserevole metafisica domina sempre più l’istruzione pubblica superiore ed universitaria: ciò che non è quantificabile, non ha valore. E così, testualmente, ha sostenuto sul Nightly News della NBC anche il magnate americano Bill Gates, il quale da anni, guarda caso, con altri magnati ultramiliardari, versa milioni e milioni di dollari per una campagna di discredito dell’istruzione pubblica, degli insegnanti, dei loro sindacati e a favore della business culture. L’ossessione della misurabilità e della quantificazione, sempre più presente nelle nostre scuole, risponde propri a questi requisiti. La pedagogia d’impresa non ama il pensiero critico, i soggetti autonomi, né vuole potenziare la creatività o la responsabilità civica e politica tra gli studenti. Il “paesaggio” descritto da Giroux sembra da una parte distopico, quasi venisse da Orwell o Huxley, dall’altra ha già fortissime rispondenze nella nostra realtà scolastica. Ma è un futuro vicinissimo, prossimo, presente.

Americanizzare la scuola? No grazie!

Ps. Un’interessante iniziativa, che in pochi giorni ha raccolto più di 11000 firme, tra cui quelle di molti autorevoli intellettuali italiani, è l’Appello per la Scuola Pubblica. Si chiede in esso, tra l’altro, una moratoria sulla legge 107 (Buona Scuola). Ecco il link da cui si può leggere firmare l’appello e vederne i firmatari: https://sites.google.com/site/appelloperlascuolapubblica/

* H. Giroux, Educazione e crisi dei valori pubblici, La Scuola, Brescia 2012, pp. 13-14.

G. Vacchelli

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