La coltivazione e l’uso del caffè non sono una scoperta italiana, la culla è in Africa sub-sahariana e in Medio Oriente. Anche l’invenzione del caffè come bevanda non è italiana, già dal 1500 era diffusa in Turchia e ai Turchi va anche il merito di aver pensato di tostare e ridurre in polvere i semi per farne un infusione.
Ma allora perché quando si parla di caffè si pensa subito all’Espresso Italiano? A me verrebbe da dire perché è il più buono, ma siccome non voglio essere di parte esibirò anche qualche ragione storica.
Innanzitutto il primo “caffè”, cioè il primo “bar” in Europa risale a circa 350 anni fa ed è, non a caso, a Venezia, visti i rapporti della Serenissima con l’Oriente. Siamo nel 1645 ed apre una cosiddetta “bottega” con prezzi finalmente alla portata di tutti. Non so che sapore avesse il caffè che si preparava a quei tempi ma immagino che fosse abbastanza cattivo, un brodo ricavato facendo bollire e filtrando la polvere di caffè, un po’ come l’Americano che ti rifilano in una arcinota catena planetaria che prende il nome da un personaggio di Moby Dick.
Col tempo il caffè, inteso come bevanda, ha subito diverse modifiche grazie a varie invenzioni italianissime che vanno dalla macchina del caffè espresso, alla moka, fino alla crema caffè, invenzioni che si svilupparono in vari luoghi tra il nord e il sud dello stivale.
L’Espresso in particolare, esportato ovunque nel mondo, è diventato un’istituzione per tutti gli amanti del caffè, al punto che sempre la famosa catena planetaria che prende il nome da un personaggio di Moby Dick, copiando e rivisitando il concept dei bar milanesi, ci ha costruito sopra un business da oltre 15 miliardi di dollari all’anno.
Persino nell’ideazione del famoso “sistema Nespresso, e qui i miliardi di dollari di fatturato sono 4, c’è lo zampino di una signora italiana. Si chiama Annamaria Favre ed è la moglie di Èric Favre, il celebre ingegnere svizzero che ha inventato il sistema a capsule per la Nestlé. A detta del marito sarebbe infatti lei la consulente che lo ha guidato in giro per l’Italia per definire quale fosse il gusto caratteristico di un buon espresso da bar e che lo ha spinto a copiare il caffè di un celebre locale di Roma.
Il Caffè Espresso però nasce in Piemonte, a Torino negli anni ottanta dell’800, grazie ad Angelo Moriondo, un imprenditore che fra le sue aziende vantava il famoso Grand Hotel Ligure, nella centralissima piazza Carlo Felice, e l'American Bar nella Galleria Nazionale di via Roma.
Fu proprio grazie a questa sua attività alberghiera e di ristorazione che il nostro inventore ebbe l'idea di mettere a punto una macchina che preparasse “caffè istantaneo” per soddisfare in tempi rapidi una clientela sempre più esigente e frettolosa. La brevettò e la presentò all’Expo Generale di Torino del 1884, occasione in cui fu pure premiato.
Moriondo però non sfruttò mai industrialmente la sua invenzione, si limitò alla costruzione artigianale di alcuni prototipi che utilizzò gelosamente nei suoi esercizi convinto che questo sarebbe stato un grande richiamo pubblicitario. Sarà invece Luigi Bezzera, un tecnico milanese, a ragionarci su e ad intuire le potenzialità della macchina. Nel 1901 ne brevettò una sua versione con alcune migliorie e vendette il brevetto a Desiderio Pavoni che con la sua azienda, “La Pavoni” appunto, cominciò a produrla.
La macchina, era ispirata ad una locomotiva a vapore: un grande cilindro verticale conteneva una caldaia di ottone mantenuta in pressione da un fornello a gas. Lateralmente vi erano i gruppi in cui veniva messa la miscela in polvere. Girando un rubinetto l’acqua in ebollizione e il vapore contenuti nella caldaia passavano attraverso il caffè alla pressione di 1,5 atmosfere e più meno in un minuto, un tempo che a noi sembrerebbe lunghissimo, il caffè era pronto.
Pochi anni dopo un altro torinese, Pier Teresio Arduino, brevettava anche lui la sua macchina da caffè, la Victoria Arduino, che si distingueva per la bellezza dei materiali, le ricche decorazioni in ottone e per le sue pubblicità affidate ad illustratori Futuristi che la ritraevano affiancandola proprio ad una locomotiva.
Saranno però l’introduzione nel 1945 a Milano della macchina a pistone di Achille Gaggia, un altro imprenditore della ristorazione, e la nascita della famosa E-61 di Faema appunto nel 1961, a cambiare sensibilmente il gusto del caffè rendendolo molto più simile a quello che beviamo oggi. Riducendo la temperatura dell’acqua ma aumentando la pressione all’interno della caldaia, grazie anche ad una pompa elettrica, la bevanda prodotta aveva perso in amarezza e guadagnato in cremosità.
Negli stessi anni, la Faema creava anche la prima “vending machine”, la macchina in cui si mette la monetina ed esce il caffè che tutti i lavoratori del mondo conoscono molto bene.
Per quanto riguarda il design non si possono dimenticare i contributi di grandissimi creativi.
Giò Ponti disegnò nel 1948 una macchina per Pavoni con la caldaia in orizzontale che divenne poi lo standard per tutti; Bruno Munari invece introdusse nel 1956 sempre per Pavoni elementi estetici che consentivano una sorta di personalizzazione della macchina in funzione del locale che la ospitava. Nel 1962, la Cimbali Pitagora disegnata dai fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni vinceva il Compasso d’oro, massimo riconoscimento per il design e pure Giorgio Giugiaro si cimenterà nel campo progettando nel 1991 una macchina per Faema.
Se poi si parla di design e brevetti bisogna assolutamente ricordare sull’altro fronte, quello delle caffettiere da casa, Alfonso Bialetti il padre della Moka, che nasce ad Omegna, come rivoluzionario superamento della cuccuma napoletana, e che verrà prodotta in più di 105 milioni di esemplari. Si tratta di un prodotto di design industriale italiano famoso in tutto il mondo, presente nella collezione permanente del Triennale Design Museum di Milano e del MoMA di New York.
E oggi? La tradizione è continuata fino ai giorni nostri assicurando il primato del tricolore sia nell’industria della torrefazione che in quella della fabbricazione di macchine da caffè espresso, comprese le macchinette domestiche a capsule che stanno popolando sempre più case e uffici.
Questa storia ci dice quindi una cosa importante: gli Italiani non sono solo dei grandi inventori, spesso copiati, ma sanno anche sapientemente “italianizzare” quello che italiano non è. E ora, ci meritiamo una pausa caffè.
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