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Che cosa sono i qualia?

pubblicato il 07 Giugno 2020

Molti saranno familiari con l’odore del pane appena sfornato, con quella sensazione particolare che proviamo quando vediamo il verde piuttosto che l’arancione, oppure ancora quando ascoltiamo la nostra canzone preferita o mangiamo una fetta di torta al cioccolato. Ebbene, tutti questi casi registrano quelli che in filosofia della mente vengono comunemente detti “qualia”. Il termine è il plurale della parola (di genere neutro) latina “qualis”, che significa “modo, attributo, proprietà”. Infatti, i qualia sono delle proprietà, dei modi in cui ci si presentano determinate esperienze che facciamo nella vita di tutti i giorni e che sono, per definizione, soggettivi e privati. Quelle esperienze che proviamo sono intime, le possiamo provare solo noi e nessun’altro: se un vostro amico siede di fianco a voi mentre state assaggiando del gelato al pistacchio, non saprà quello che state provando mentre fate quella determinata esperienza. I qualia, a detta di alcuni filosofi come David Chalmers, sono delle proprietà non-fisiche e che non possono essere descritte mediante il linguaggio e le scienze. Per tornare all’esempio di prima, io posso stare mezz’ora a cercare di descrivere in modo oggettivo e preciso che cosa sto provando mentre assaggio quella pallina di gelato, ma non riuscirò mai a dare un’analisi dettagliata e scrupolosa di quella determinata esperienza. Inoltre, proprio per il fatto che queste esperienze sono personali e non descrivibili se non provandole direttamente in prima persona, è stato portato un argomento che sostiene che i qualia sarebbero non-fisici.

L’argomento, sebbene ancora oggi si discuta sulla sua conclusione e sulla sua effettiva validità, è stato proposto dal filosofo Frank Jackson in un articolo del 1982 che ha come titolo originale “Epiphenomenal Qualia”, ossia “Qualia Epifenomenici”. In sintesi, Jackson propone un esperimento mentale, qualcosa che non accade tutti i giorni nella nostra realtà: ci chiede di immaginare una ragazza di nome Mary, tenuta per tutta la vita all’interno di una stanza in bianco e nero. All’interno della sua stanza completamente priva di colore, Mary si dedica allo studio della visione: approfondisce come vediamo i colori, come la luce si rifletta sulla retina e a quale frequenza d’onda vediamo, ad esempio, il rosso e il verde. Mary si cimenta per tutta la sua vita a cercare di studiare il colore e come le persone vedano tali colori. Tuttavia, Jackson si fa una domanda e si chiede: quando Mary uscirà da questa stanza e farà esperienza di una rosa rossa, che cosa accadrà? Imparerà qualcosa di nuovo rispetto a quello che conosce nella stanza, oppure no? Secondo Jackson (1982 e 1986), Mary farà esperienza dei qualia del rosso, farà esperienza del colore che all’interno della stanza le era stato negato da chi l’ha rinchiusa lì dentro. Imparerà che cosa si prova a vedere il colore rosso e imparerà anche che cosa provano le altre persone quando vedono il rosso. Se così fosse, conclude il filosofo australiano, allora segue che il fisicalismo (ossia la dottrina che sostiene che il nostro mondo si possa spiegare usando solo la scienza, in estrema sintesi) sarebbe falso: Mary dentro la stanza sapeva tutto quello che c’era da sapere sul colore da un punto di vista fisico, ma una volta uscita dalla stanza apprende qualcosa di nuovo, appunto, l’esperienza del rosso. Segue dunque che tale esperienza (quella dei qualia del rosso) è non-fisica e dunque il fisicalismo è falso.

Il dibattito intorno a questo argomento, che in filosofia della mente è conosciuto come “L’argomento della conoscenza” (in originale, “The Knowledge Argument”), è ancora aperto ed è molto complicato risalire a tutte le obiezioni e le proposte che sono state avanzate. Jackson comunque, in un articolo recente del 2003, ha cambiato posizione sull’argomento e sostiene che ci sia un problema in esso. Nell’articolo di quell’anno, sostiene che il problema del suo argomento risieda nel fatto che l’esperienza del rosso causerebbe (come pensiamo intuitivamente anche noi) in Mary quella determinata esperienza. Qual è il problema? Il fatto è che Jackson nel suo articolo del 1982, in cui presenta l’esperimento di Mary, difende una tesi che in filosofia della mente prende il nome di epifenomenismo. Che cosa dice questa tesi? Che i nostri stati mentali (come la rabbia, la paura, credere che l’Italia sia la nazione più bella del mondo, il desiderio di andare in bicicletta domani pomeriggio) non hanno alcun potere causale sul mondo: se io voglio bere un bicchiere d’acqua, il mio desiderio di bere quel bicchiere non ha alcun effetto, ma è il mio cervello che mi fa andare a prendere quel bicchiere d’acqua. Il fatto che io voglia berlo non ha alcuna importanza, non incide sulla mia azione. Se noi accettiamo questa tesi, dobbiamo accettare anche che i qualia non causino niente: in questo modo però non si capisce che cosa abbia causato l’esperienza di Mary, se i qualia non possono fare nulla. Questa, ed altre ragioni minori, hanno portato Jackson ad abbandonare l’argomento e la posizione epifenomenista.

Che sia stata la scelta più corretta, questo è oggetto di dibattito. Fatto sta che alcuni filosofi della mente come David Chalmers e la filosofa Hedda Mørch ritengono che l’argomento proposto da Jackson sia ancora valido, sostenendo inoltre che i qualia devono essere non-fisici per il fatto che la loro natura si dispiega soltanto nell’esperienza. Il dibattito contemporaneo propende comunque a ridurre le conclusioni dell’argomento, come si può vedere in un articolo molto recente di Tim Crane (2019), il quale sostiene che Mary apprende soltanto un nuovo modo di conoscere il mondo, e non delle proprietà non-fisiche. Tuttavia, come per molti temi della filosofia della mente, non c’è un accordo unanime sulla reale portata dell’argomento della conoscenza. Che cosa mostra realmente? I qualia sono non-fisici oppure no? Mary apprende qualcosa di nuovo oppure no?

Ai posteri l’ardua sentenza.

F. Pelucchi
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##filosofiadellamente #frankjackson #filosofia

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