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Per la comunità e il bene comune, il senso dell'impresa per Adriano Olivetti

pubblicato il 14 Dicembre 2017

Beniamino de’ Liguori Carino è il segretario generale della “Fondazione Adriano Olivetti”, nata negli anni Sessanta per volontà dei familiari, collaboratori ed amici di uno degli imprenditori più noti nella storia dell’industria italiana. Una delle missioni principali della Fondazione è quella di portare avanti l’originario obiettivo di Olivetti: realizzare un modello di impresa che sia non solo produttivo, ma anche e soprattutto etico-sociale. E probabilmente ciò che andrebbe recuperato, almeno in parte, per rilanciare positivamente le attuali esperienze imprenditoriali italiane, è proprio l’attitudine olivettiana a concepire il lavoro prima di ogni altra cosa come risultato di sinergie intellettuali e culturali.

Quali sono le caratteristiche principali del modello di impresa sociale olivettiana?

Quella di Olivetti è un’idea di impresa che si avvale sì degli strumenti della modernità, ma viene calata al centro di un progetto organico di riforma della società e della cultura. Ha dunque una sua parte imprenditoriale, industriale e produttiva e poi, come se ci fosse una corolla, tutta una serie di implicazioni e di articolazioni teoriche che rientrano negli ambiti della politica e delle scienze sociali. È una impresa che non ha nel profitto il suo fine: anzi, il profitto è uno strumento messo al servizio di una idea ben più ampia e sicuramente più affascinante di società integrata.

Si potrebbe quasi parlare di una sorta di “pubblica felicità”, rimodellata su base industriale ai tempi moderni…

Certamente. Anche se Olivetti si rifaceva ad un vocabolario in un certo senso diverso, la sua ricerca ruotava costantemente intorno al tentativo di realizzare una società ed un mondo materialmente più fascinosi e al contempo spiritualmente più elevati. In questo senso, era forte l’idea di uomo e dei suoi bisogni primari: proprio intorno a questi progetti si è andato sviluppando ed articolando il progetto di impresa e di società. Addirittura Olivetti va oltre, parlando di quattro forze spirituali: amore, giustizia, verità e bellezza. Gli Stati che negano queste quattro forze, secondo la sua visione, non saranno mai in grado di percorrere ed indicare la strada della civiltà.

Cioè?

In altre parole, si tratta della realizzazione dell’individuo e allo stesso tempo della realizzazione di una società più giusta, più equa e più attenta ai bisogni primari dell’uomo. Ovviamente contemplando anche la sovrapposizione dei due piani, dal punto di vista pure filosofico.

Quanto è cambiato il mondo dell’imprenditoria industriale dal secondo dopoguerra ad oggi?

Tantissimo. Sicuramente all’epoca di Olivetti stava iniziando già a profilarsi quello che poi sarebbe diventato più evidente in seguito: il sopravvento della finanza sul mondo dell’impresa tout cour. Quella del dopoguerra era un tipo di impresa che si dava degli obiettivi a medio e lungo termine, mentre oggi gli obiettivi sono molto, molto, molto vicini nel tempo. E ciò, con tutto quello che ne consegue: capacità di progettazione e di farsi carico di una visione del futuro. In questo senso, Olivetti è stato un grandissimo imprenditore, uno dei più grandi al mondo, e la sua grandezza sta anche e soprattutto in una visione che riusciva ad andare oltre alla semplice impresa, in un progetto estremamente organico.

Che ruolo ha giocato la globalizzazione?

Rispetto ai tempi di Olivetti c’è stato il totale abbandono del senso di comunità. La globalizzazione che viene promossa e che ci viene raccontata pare essere solo commerciale, molto lontana dall’idea olivettiana del miglioramento delle condizioni generali dell’esistenza promosso tramite strumenti di arricchimento dal punto di vista spirituale, culturale e tecnologico. Adriano Olivetti aveva portato la sua azienda ad essere all’avanguardia ed altamente competitiva negli anni Cinquanta e vedeva nella comunità un luogo in cui resistono le istanze etiche di solidarietà di partecipazione e di comprensione tra gli individui. Questo la globalizzazione l’ha cancellato, perché siamo tutti padroni di un mondo che in realtà non esiste.

Adriano Olivetti concorderebbe con i criteri di questa globalizzazione?

Direi di no, anche se immaginare cosa direbbe Olivetti oggi è complicato. Il costante tentativo olivettiano è stato quello di una restituzione di senso alle cose: ad esempio, non solo restituire dignità al lavoro, ma dargli anche un senso. Un senso alle persone, alle competenze, alla rappresentanza politica. Oggi sembra che questo senso si sia sempre più allontanato dalle cose e assistiamo quotidianamente ad una demistificazione, quando non ad un totale svuotamento, del senso del lavoro, dei rapporti sociali ed interpersonali. 

È possibile individuare un “nuovo Olivetti” nella società odierna?

Certamente esistono delle esperienze imprenditoriali e delle pratiche che, anche inconsapevolmente, si rifanno al modello olivettiano. Anche solo per dimensione, quella di Olivetti è una esperienza del passato e, in qualche modo, anche un’occasione persa: si trattava di una delle aziende più importanti al mondo, un’avanguardia non solo dal punto di vista tecnologico e di prodotto, ma anche sotto i profili sociale ed etico. In questo senso, è impossibile replicare un’esperienza simile: Olivetti incarnava realmente una possibilità di cambiamento, e forse oggi la incarna ancora di più. Il suo messaggio risulta maggiormente chiaro ed Olivetti siamo un po’ tutti: la sua storia è attualità, contemporaneità. C’è una esigenza di cambiamento e il fatto che ci siano sempre più imprenditori che guardano ad Olivetti come ad un esempio, dimostra in concreto che egli non è una voce del passato, ma un profeta nel nostro tempo. 

La democrazia senza partiti auspicata da Olivetti risulta possibile o è pura utopia?

Non credo sia un’utopia anzi, per certi versi, si può profilare come concreta esigenza. Quella di Olivetti era sì una critica ai partiti, ma ne riconosceva comunque il valore. Ciò in cui non si riconosceva era la distanza che esisteva tra i partiti e la gente, perché il suo disegno comprendeva ad esempio unità territorialmente più definite, in cui la rappresentanza politica sarebbe stata più efficace ed efficiente. Questo non vuol dire rinunciare allo Stato centrale: quella di Olivetti non era un’idea separatista o di federalismo esclusivo. Il suo modello contemplava un ordinamento che lui definiva “politico delle comunità”, in cui le comunità concorrevano per un bene comune che altro non era che un bene nazionale. 

Uno dei grandi problemi di oggi è la delocalizzazione all’estero delle industrie italiane: quali potrebbero essere le soluzioni più facilmente applicabili per limitare questo fenomeno?

Al di là del discorso sulle politiche centrali di aiuto e di sostegno, bisogna riflettere sul ruolo della cultura: ovvero ritornare ad una dimensione più piccola, in cui l’impresa non è un luogo sganciato dal territorio in cui produce. L’impresa è il motore per quel territorio e come tale deve essere percepita: questa è stata una grandissima intuizione olivettiana. Oggi la responsabilità sociale dell’impresa nei confronti del territorio è quella di una restituzione: per Olivetti, invece, era il motivo stesso per cui l’impresa esisteva. In una piccola percentuale si sta ritornando a ciò. Ci sono tante piccole e medie imprese che fanno della territorialità un loro punto di forza, perché è proprio nella dimensione del territorio che si ritrovano le istanze etiche nei confronti dell’“altro”.

Purtroppo, però, lo Stato non pare favorire lo sviluppo di piccole e medie imprese territoriali, ad esempio non attuando politiche fiscali agevolate…

Viviamo in un Paese che, ahimé, molto spesso non ha saputo valorizzare le sue risorse: il caso di Olivetti è drammaticamente paradigmatico. Nel 1959 Adriano Olivetti lancia sul mercato il primo calcolatore al mondo di tipo moderno, nella totale solitudine e senza aver ricevuto alcun tipo di finanziamento statale; quando, nel giro di pochi anni, le cose cambiano una serie di circostanze tra cui la morte di Adriano ed un’esposizione di investimento degli azionisti, lo Stato anziché sostenere Olivetti deciderà per la vendita in modo indiretto della Divisione Elettronica Olivetti alla General Electric americana. I fatti hanno dimostrato che le politiche industriali di questo Paese spesso non agiscono nell’interesse nazionale, ma generalmente rispondono ad altri interessi, molto più particolari e di breve periodo.

Perché sarebbe importante, soprattutto per le nuove generazioni, recuperare la figura di Adriano Olivetti?

Perché oggi rappresenta davvero un’istanza di cambiamento: egli aveva posto gli strumenti della modernità, come la tecnologia e l’impresa, al servizio della persona. Al di là di ogni retorica, questo è visibile in ogni articolazione della sua esperienza. Olivetti lavorava per il bene comune, nell’idea che attraverso l’impresa si potesse creare una società più equa, più giusta e più solidale. In lui identifichiamo l’apertura al futuro di un mondo moderno e concretamente progredito. Non a caso, citava spesso Johan Huizinga, secondo cui uno dei peccati della società contemporanea è stato quello di aver attributo al termine “progresso” solo il significato di moto a luogo: Olivetti ha ragionato profondamente su come impiegare le possibilità della modernità in una idea di persona e di società senza tempo.

A. Pepa

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