Che le parole siano importanti per comunicare lo sappiamo tutti. Non tutti però sappiamo che, attraverso le parole, possiamo cambiare la realtà. Ogni cambiamento è un processo culturale che, inevitabilmente, ha a che fare con le parole. Queste sono infatti gli strumenti con cui il pensiero entra in comunicazione con la realtà, attribuisce significati e determina nuove visioni del mondo. Intervenire sul linguaggio, favorendone un uso appropriato e consapevole, significa dunque intervenire sulla realtà, fino a renderne possibile il cambiamento.
Non è un caso dunque che la crisi culturale in atto sia caratterizzata da un impoverimento dell’uso del vocabolario italiano e da una perdita di significato dei suoi vocaboli. Così come non è un caso che l’abuso o l’uso inconsapevole del linguaggio politico, abbia fatto sì che le parole della politica perdessero la loro capacità trasformatrice, rendendoci tutti più vulnerabili al pressante gioco della manipolazione mediatica.
Se è vero che la parola è azione e che l’agire è atto politico, occorre dunque rifondare il linguaggio della politica e ripristinare la forza originaria delle parole. Ripensare la politica vuol dire pertanto in primis ripensare il suo linguaggio, promuoverne un uso consapevole e appropriato, in antitesi a quell’ars oratoria, propria del potere, che mira più al controllo delle menti che alla conoscenza della verità.
Ecco perché affrontare oggi la crisi della politica può significare anche rileggere il processo storico che ha determinato la nascita di ogni parola della politica, ritrovarne il significato originario attraverso la riflessione etimologica. La conoscenza del linguaggio politico non solo infatti ci consente di riconoscere gli abusi di ogni contaminazione strumentale, ma ci rende meno vulnerabili alle manipolazioni della propaganda.
Ma chi oggi si fa carico dell’educazione civica e in generale delle premesse prime per una partecipazione politica libera e consapevole? Si è fatto un gran parlare di “buona scuola” e si è voluta legittimare l’imposizione deleteria e fuorviante del “lavoro” nelle scuole, ma chi ha pensato a rilanciare il senso di appartenenza comunitaria e l’idea di bene comune, promuovendo un’adeguata formazione sociale e politica? A quanto pare nessuno, se è vero che non si riesce ad andare oltre il voto di protesta, né a vincere l’astensionismo. Ormai è chiaro che per cambiare la politica, non basta andare alle urne e invocare una vaga speranza di cambiamento. Occorre promuovere un processo culturale che sappia rilanciare l’idea della paideia come condicio sine qua non della democrazia e di un vero cambiamento in politica. Ripartire da un uso consapevole delle parole può essere il primo passo di questo processo, se è vero – come diceva la socialista Rosa Luxemburg – che chiamare le cose con il loro nome è il primo atto rivoluzionario.
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