Il nostro viaggio nel mondo dell’istruzione scolastica e universitaria sempre più mercificata continua anche con una serie di interviste a studiosi, professori, operatori culturali, educatori, presidi etc. In qualunque caso persone che l’università e la scuola la conoscono bene e da vicino, per esperienza.
Incontriamo il prof. Roberto Mancini, ordinario di teoretica all’Università di Macerata, una delle menti filosofiche italiane più acute e coraggiose. Mancini ha già scritto un’opera estesa ed imponente. Molti dei suoi ultimi libri – come Trasformare l’economia e Ripensare la sostenibilitภentrambi editi Franco Angeli – riflettono sulla follia capitalista, sulla “sindrome di Stoccolma” che ci fa innamorare dei nostri carcerieri e sulle possibilità di trasformare la società. Roberto Mancini entra subito nel merito con passione e lucidità.
Prof. Mancini cosa significa fare università al tempo dell’economicizzazione assoluta dell’istruzione? Quali le ricadute concrete?
Questa logica di mercatizzazione penetra intanto fin dentro la didattica. Essa premia delle competenze che sono in verità funzionali al mercato e si arma di modalità tecnologiche che diventano esse stesse il soggetto, mentre noi diventiamo oggetti della tecnologia. Lo sviluppo fondamentale della persona è così scavalcato. Anche la ricerca è contaminata da questa logica mercatistica: non si guarda più alla validità di un progetto di ricerca, ma al modo di ottenere i fondi. La ricerca è così commisurata sui fondi e sull’ottenimento degli stessi, e la ricerca seguirà i fondi, non viceversa, in un totale sovvertimento. Il terzo effetto è l’indebolimento del pensiero critico, che viene a colpire per i primi i docenti stessi. Essi abdicano all’istanza critica e si abbandonano a individualismi, personalismi o alla logica degli incentivi. Questo comporta un crollo culturale ed etico della scuola e dell’università, pericoloso per loro stesse, ma anche perché viene a mancare il contributo critico che l’università e la scuola dovrebbero dare al proprio paese e al suo rinnovamento.
Il quadro è inquietante. Sono in gioco trasformazioni radicali e involutive dell’intera istruzione, eppure non se ne parla, almeno nel mainstream mediatico. La scuola si autoproclama “Buona”. Tutto sembra dover accadere per necessità. Come mai? Cosa ne pensa?
È così. Qui scontiamo gli effetti del venir meno di una politica democratica. Mancano perciò in generale forze politiche che assumano la democrazia, i diritti delle persone, delle collettività e della natura come il quadro fondativo del loro agire. Senza soggetti politici credibili, anche le forze migliori operanti nella società restano frammentate e non coagulano tra loro. Si deve quindi ricostruire lo strumento della politica a partire anche dall’auto-organizzazione di quei movimenti che hanno a cuore i diritti, l’educazione e la vocazione ad essa. Una strada quindi può essere quelle dei gruppi di insegnanti, in collaborazione con le famiglie e con gli studenti, che già operano a livello locale, in associazioni e in realtà simili, ma che dovrebbero diventare più visibili e collaborare tra loro. Si nota del resto che manca un movimento studentesco all’altezza dei problemi da affrontare. Questo superamento della frammentazione dei vari gruppi e la loro convergenza potrebbe favorire, assieme all’istanza critica, anche una progettualità e una nuova visione complessiva, che diventino veramente fecondi per una rinascita educativa del paese.
L’ultima domanda è forse più filosofica, ma vuole esse molto concreta: da una parte se siamo arrivati fin qui, forse è perché la modernità ha privilegiato una ragione calcolante, un pensiero computazionale, e il trionfo dell’utile. Possiamo uscire da questa selva oscura?
Come prima cosa direi che tutta questa non è una religione, come spesso si dice, ma un nichilismo. L’esito del capitale è questo nichilismo per cui i singoli, le istituzione e anche i gruppi di potere stesso si consegnano ad una logica impersonale, che li programma e li domina: la logica delle borse, delle banche, dell’accumulo. Da questa accumulazione derivano poi la competizione, la flessibilità, la perdita dei diritti e così via. La controtendenza positiva secondo me sono quei “movimenti dell’altrimenti” che pensano e hanno un’altra visione delle cose e del mondo. Li definirei movimenti popolari, molto difficili qui in Italia, perché subito i gruppi diventano settari, ma in genere in Europa, ma molto presenti in America del Sud, in Africa, e in altri continenti. Essi cercano di realizzare da una parte esperienze di un’altra economia e di un’altra cultura e modo di vedere la società, perché se cambia il modo di pensare cambia anche l’economia. Dall’altra questi movimenti promuovono un cosmopolitismo politico dal basso, come dicono certi antropologi, a proposito dell’India, per esempio. Questo significa che la logica non è quella del privilegio, di un “ci siamo prima noi”, “questa cosa è prima nostra”, ma di un “insieme”. Insieme si affrontano i problemi comuni. E questa è la politica nel vero senso della parola.
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