Accoglienza e integrazione, due parole fin troppo usate con le quale siamo chiamati fare i conti ogni giorno. Il tema dei migranti occupa le prime pagine dei più importanti quotidiani e non è possibile ascoltare un notiziario senza sentire parlare delle cd politiche dell’accoglienza o dei vari progetti europei per l’inclusione sociale. Ma siamo proprio sicuri che l’integrazione sia qualcosa che segue immediatamente l’accoglienza? Al di là dei facili slogan, cosa si intende per integrazione nel linguaggio politico?
Per prima cosa occorre dire che, a differenza di quanto solitamente viene affermato, non è affatto vero che il mantenimento dell’unità politica si ponga come il primo ostacolo per una società multiculturale. Da un punto di vista storico, il processo di integrazione è anzi coinciso con il processo di costruzione della Nazione, all’interno della quale gruppi culturali eterogenei hanno avuto la possibilità di trovare un’identità comune e di sentirsi parte di una stessa comunità politica. La tutela di minoranze linguistiche, intese anche come minoranze etniche culturali, è prevista dall’art. 6 della nostra Costituzione che, insieme all’art. 3, vieta ogni discriminazione in base al sesso, razza, religione, opinioni politiche e condizioni personali e sociali.
Pertanto nulla di nuovo sotto questo cielo. L’integrazione non è una scoperta dei nostri giorni, ma costituisce uno dei valori fondamentali della nostra democrazia. Il pluralismo democratico si oppone infatti all’idea che sia possibile realizzare una società multiculturale attraverso la soppressione o l’assimilazione di una cultura ad un’altra. L’idea di fondo di una società multiculturale rimane infatti pur sempre quella di una società democratica, in cui l’affermazione del principio di uguaglianza non deve mai andare a discapito del “diritto alla differenza”. Trattare in modo uguale le diverse culture, non vuol dire dunque omologarle, appiattirle su un unico modello, rimuoverne le differenze, ma ben diversamente riconoscerne le peculiarità e valorizzarne le differenze. Si tratta dunque di ripensare l’uguaglianza come rispetto delle diversità.
Integrazione non può voler dire rinuncia all’identità. Ciò infatti non solo determinerebbe le basi per una falsa accoglienza, ma favorirebbe il processo di in-globalizzazione in atto, ossia l’opera di rimozione delle diversità culturali e la tendenza ad imporre un unico modello planetario. L’assurdo è che oggi si vorrebbe far credere l’esatto contrario e giocando sulla confusione tra identità e identitarismo, si vuole far credere che l’idea stessa di identità sia sinonimo di quell’intolleranza che, opponendosi al pluralismo culturale, apre le porte al totalitarismo.
Se l’accoglienza si misura da quanto lo straniero possa sentirsi parte di una comunità e riconoscersi in valori comuni, allora è necessario pensare ad una società in cui, al di là delle differenze, vi sia un consenso minimo sulle leggi e sui quei valori essenziali per una pacifica convivenza. Non è possibile pertanto, in nome dell’accoglienza, spingersi sino al punto di dover mettere in discussione le regole fondamentali di una società democratica.
Se tutto questo è vero, allora l’integrazione è un processo culturale che non può essere trattato come un’emergenza. Si tratta di un programma di lungo periodo che richiede un impegno politico responsabile. Il fenomeno in atto di politicizzazione dell’immigrazione e l’esaltazione buonista di un’accoglienza fine a se stessa, di fatto non sono supportate da politiche concrete atte a favorirne lo sviluppo. A nulla vale imporre un’accoglienza indiscriminata, se poi non si creano le condizioni per garantire a tutti una eguaglianza di opportunità sociali, economiche e politiche. Occorre perciò individuare prioritariamente politiche che, secondo il dettato costituzionale, siano in grado di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che favoriscano l'effettiva partecipazione di tutti all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Ecco perché l’accoglienza da sola non può bastare. Ecco perché occorre ripartire dalla giustizia sociale e considerare i diritti sociali come la cartina di tornasole di una vera integrazione. Fuori dagli sterili slogan ideologici, oggi sono necessarie politiche in grado di regolare i flussi migratori e di sostenere i relativi processi di integrazione. Non si tratta di scegliere tra accoglienza o non accoglienza, ma di optare per un’accoglienza responsabile che tenga conto del fatto che solo un’economia in espansione può garantire questa opportunità ad un numero illimitato di persone. Tutte le altre economie, compreso la nostra, dovranno riparlare di permanenza legale e tornare a vincolare questa al contratto di lavoro.
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