In assenza tanto di una nozione di sfruttamento dai contorni precisi, quanto di una prospettiva altra in nome della quale rigettare il presente, negli ultimi anni l’opposizione operativa alle ingiustizie sempre più dilaganti è andata incontro a un’atrofia mai sperimentata in precedenza. Nel quadro della società livida, le contraddizioni sempre più macroscopiche di cui dà prova il nostro mondo vengono apaticamente vissute come necessità sistemiche, come inesorabili processi inscritti nella natura delle cose e contro cui, pertanto, “resistere non serve a niente”, come recita il titolo di un fortunato romanzo del nostro tempo.
Nell’odierna fase speculativo-finanziaria, con il suo spettacolo ignobile di una violenza che non trova risposta, la riproduzione del sistema è, per la prima volta, interamente nelle mani dei dominanti: i dominati costituiscono un polo meramente passivo. La lotta di classe non è scomparsa, come ripetono quelle logore retoriche neoliberali che hanno reso plausibile l’inimmaginabile: semplicemente, essa è gestita unilateralmente dal capitale contro i dominati non più coscienti di sé e del loro ruolo, incapaci di contrastare un nemico che non ha smesso di vincere. In assenza di una risposta da parte degli offesi, la lotta di classe si è riconfigurata come “massacro di classe” condotto dai dominanti ai danni dei subalterni. Il dogma di Hayek – “il concetto di giustizia sociale è necessariamente vuoto e privo di significato” – viene sempre più metabolizzato anche dai dominati, elevandosi a sintesi quintessenziale della condizione neoliberale.
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