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Il teorema di Campanella: utopia e senso della possibilità

pubblicato il 29 Marzo 2018

Una delle definizioni più efficaci che sono state date dell’attuale congiuntura storica è quella di Miguel Benasayag e Gérard Schmit, secondo i quali quella odierna sarebbe l’epoca delle passioni tristi. Pare che il processo di disincantamento del mondo sia giunto al suo culmine e che ormai – anche nei più giovani – la dimensione del cinismo e della rassegnazione abbia fagocitato del tutto quella della speranza utopica.

Ma che cosa è il mondo se non sempre quello che noi lo facciamo (Gentile)? A tal riguardo, la lettura di alcuni dei grandi classici filosofici italiani può essere una vera e propria panacea. Così, ad esempio, Tommaso Campanella ci ricorda come la realtà è intrasformabile solo e soltanto se noi siamo convinti che lo sia. “Homo non potest facere quod non credit posse facere” – l’uomo non può fare ciò che non crede di poter fare – così si legge in De sensu rerum et magia. Per Campanella, infatti, la vera magia non è altro che filosofia della prassi. Non a caso, per utilizzare le parole di Giordano Bruno, “considerato da filosofi e tra filosofi, mago allora significa uomo sapiente, in grado di operare”.

Ma ancora prima che nell’effettiva prassi, la magia del pensiero risiede nella convinzione che la trasformazione del reale sia possibile, nella consapevolezza che la pensabilità della prassi è precondizione fondamentale della prassi stessa. Da questo semplicissimo teorema occorre ripartire oggi: il mondo – lungi dall’essere immodificabile – è un effetto del soggetto agente che, pertanto, deve far sua quella mentalità utopica senza la quale si produce “una condizione statica in cui l’uomo non è più che una cosa” (Mannheim). Ripensare seriamente l’utopia (dal greco ou, non, e tópos, luogo) significa sottolineare il suo elemento antagonistico-conflittuale, ovvero quell’ou che non sta ad indicare banalmente la sua irrealizzabilità, ma il suo essere in conflitto con la realtà presente.

Le passioni oggi dominanti sono di segno opposto a quelle utopiche: la sempre maggiore diffusione di paura, rassegnazione e disincanto sembrano indicare il passaggio definitivo dalla ragion pratica alla ragion cinica. In questo contesto – in cui manca quello che Gramsci chiamerebbe lo “spirito di scissione” – è necessario riaprire il conflitto e risvegliare il senso della possibilità oggi latente. In altre parole, occorre riscoprire il pensiero utopico la cui essenza – Campanella docet – risiede in primis nella fondamentale convinzione, tutta interna al soggetto, che la realtà sia modificabile verso il meglio. Solo allora sarà possibile tornare a guardare al futuro con l’“ottimismo della volontà”.

C. Claverini

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